Una principessa ballerina in Africa

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Quando mi è stato chiesto di scrivere una storia su quanto ho vissuto questa estate mi sono fermata un attimo a riflettere, perché la parola storia mi fa venire in mente l’ idea di una favola, di un racconto fantastico, dove tutto è possibile, dove gli animali possono parlare, le zucche possono diventare carrozze, i principi sono azzurri, le case fatte di zucchero filato e dove alla fine

C' è sempre un lieto fine. Come ogni favola anche la mia comincia con c’ era una volta…C’ era una volta una città chiamata Maputo, fatta di palazzi alti almeno 5 piani, e villette che si affacciano sulla costa, banche, alberghi a 5 stelle, dove il tempo scorre veloce e la vita non ha nulla da invidiare a quella negli altri continenti…

C’ era una volta un quartiere chiamato Bagamoyo, fatto di piccole case di pietre e lamiere, di strade di terra rossa, di mercati a cielo aperto, di discariche che fiancheggiano le scuole, dove il tempo sembra dilatarsi ed è scandito da una ragazza che aspetta una chapas all’ angolo della strada, una bambina che gioca al salto della corda con un filo elettrico, una mamma che allatta suo figlio accanto a un cumulo di immondizia che brucia, donne che si alzano all’ alba x andare a lavorare nei campi e prima ancora di aprire gli occhi già cantano ringraziando dio per aver donato loro quel nuovo giorno…

C’ era una volta un centro di recupero per bambini portatori di handicap gravi, dove il tempo sembra fermarsi e lo spazio assume forme e colori nuovi, non sono più nella grande città, nemmeno nel poverissimo quartiere di periferia, sono in un’ oasi in mezzo ad un deserto: vedo prefabbricati di moderna costruzione, arredati in maniera spartana ma sempre puliti e curati, vedo le cucine, da cui esce sempre un buon profumo, scorgo una lavanderia, sempre in attività, c’ è una cappella e un refettorio, finalmente vedo le camere dei bambini, sono divisi per età, tutti affidati alle cure di abili donne:

le chiamano “mamme”, forse perché il suono della parola mamma ha un non so che di magico e riesce a calmare il pianto di quei bambini, che non conoscono il significato di questa parola, molti neanche l’ hanno mai vista la loro madre… Entro nella stanza dei più grandi e la prima sensazione che provo è profondo sconforto e inadeguatezza, mi sento inutile, vado allora nella cameretta dei più piccoli ma neanche il tempo di contarli che già sono innamorata… Sono 34 bambini stupendi;

la Medicina li ha definiti diversamente abili, quelli che li hanno abbandonati li considerano degli errori, delle maledizioni, paradossalmente io credo siano molto più fortunati di tanti altri bimbi che vivono fuori da quella struttura; dopo un giorno in missione non noto più il “diverso”: il diverso del colore della pelle, il diverso di un piedino storto o un braccio atrofizzato o della bava che cola da bocca, sparisce anche il senso di smarrimento, perché anche il provare a dare un piccolo aiuto è meglio che non fare nulla;

i giorni passano così, tra l’ aiutare le mamme con le pappe o i cambi per i bambini, giocare con loro, aggiornare le cartelle cliniche e fare il resoconto per le adozioni a distanza, aiutare a metter su il nuovo ambulatorio, destinato al recupero psicomotorio dei bambini: il progetto prevede terapie settimanali con fisioterapisti e terapisti occupazionali.

E poi c’è da pensare alle famiglie esterne, cioè bambini che purtroppo il centro non può ospitare ma che sono iscritti in una lista per il sostegno a distanza, che arrivano due giorni a settimana in missione per ritirare cesti con beni alimentari: non dimenticherò mai gli occhi di una madre che mi guarda fisso ma che in realtà non mi vede, sono occhi pieni di tristezza ma stracolmi di dignità e riservatezza, non dimenticherò mai il volto di un padre, segnato dalla disperazione, abbandonato dalla moglie dopo la nascita del loro figlio handicappato, chiedere con profonda umiltà e rispetto poche monete per poter tornare a casa in pullman:

in quel momento ho provato impotenza, ma non puoi mostrarti debole, soprattutto quando sai di dover infondere conforto e sicurezza in qualcun altro.

Come ogni favola anche la mia ha un lieto fine: la cosa più emozionante è vedere i bambini entrare nel nuovo ambulatorio e urlare di gioia alla vista di tanti giocattoli e poster colorati, vedere lo sforzo fisico del riuscire ad aprire una manina completamente atrofizzata pur di afferrare una pallina o un orsacchiotto, pur di rimanere a giocare ancora un po’, pur di dimostrare che da soli possono farcela, perché la maggior parte di questi bambini ha solo un modo per comunicare, gli occhi…

Sono occhi che ti cercano, ti studiano, ti conoscono e solo allora ti concedono la loro fiducia, un solo sguardo vale più di mille parole, non lo puoi deludere ne ingannare: l’ ultimo giorno una bambina capisce che sto per partire, mi guarda e con gli occhi grida: “non andartene via anche tu”…..

La cosa più brutta è stato vedere quegli occhi; ci sono cose che si imparano dai libri, per molte altre non esiste insegnante migliore della vita…. La favola di Cenerentola insegna che i sogni son desideri e diventano realtà, la favola della Bella e la Bestia insegna che l’ apparenza inganna e dietro il brutto e deforme si nasconde un principe dal cuore tenero e gentile…

questa favola insegna il rispetto per il diverso, insegna i valori semplici e autentici della vita, insegna che il sorriso di un bambino può rigenerarti il cuore, insegna che anche nella malattia e nella miseria si può trovare la forza di sorridere e ringraziare dio per il dono stesso di farci respirare, perché abbiamo una sola possibilità in questa vita, e non vale la pena sprecarla;

Manca un titolo a questa favola, qualcuno potrebbe chiamarlo “terzo mondo”, ma sarebbe come porre ancor più le distanze tra noi e qualcosa che sentiamo già troppo lontano e diverso, perciò io lo chiamerei ” il resto del nostro mondo”… Per non dimenticare mai!

 

Torre del Grecco

Per: Serena Mazza